Giovanni Pascoli dedicò un'ode a Messina, porta dell'isola, e a tutta la Sicilia
L' isola dei poeti
Il treno andava. Gli occhi a me la brezza
pungea tra quella ignota ombra lontana; e m’invadea le vene la dolcezza antelucana: e il capo mi si abbandonò. Tra i crolli del treno allora non udii che un frùscio uguale: il sonno avea spinto sui molli cardini l’uscio, e, di là d’esso, il fragor ferreo parve piano e lontano. Ed ecco udii, ricordo, il metro uguale, tra un vocìo di larve, del tetracordo: di là dal sonno, alcuno udii narrare le due Sirene e il loro incantamento, e la lor voce aerea, di mare fatta e di vento: gli udii narrare l’isola del Sole, là dove mandre e greggie solitarie pascono, e vanno dietro lor due sole grandi armentarie, con grandi pepli… Ed il tinnir cedeva ad un’arguta melodia di canne: udii cantare il fumo che si leva dalle capanne, le siepi in fiore, i mezzodì d’estate pieni d’un verso inerte di cicale, e rombi delle cupe arnie, e ventate fresche di sale: e chi cantava forse era un pastore tutto nascosto tra le verdi fronde: chiaro latrava un cane tra il fragore vasto dell’onde. Ecco e le cetre levano il tintinno dorico, misto allo squillar del loto chiarosonante. Ed improvviso un inno sbalza nel vuoto: l’aquila è in alto: fulgida nel lume del sole: preda ha negli artigli: lente ondoleggiando cadono giù piume sanguinolente: in alto in alto, sopra i gioghi bianchi d’Etna, più su de’ piccoli occhi torvi: nelle bassure crocitano branchi neri di corvi. Quel crocitare mi destò. Di fronte m’eri, o Sicilia, o nuvola di rosa sorta dal mare! E nell’azzurro un monte: l’Etna nevosa. Salve, o Sicilia! Ogni aura che qui muove, pulsa una cetra od empie una zampogna, e canta e passa… Io era giunto dove giunge chi sogna; chi sogna, ed apre bianche vele ai venti nel tempo oscuro, in dubbio se all’aurora l’ospite lui ravvisi, dopo venti secoli, ancora. |
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