Libri: I Pascoli del Mistero, i gialli di Maria Santini

Descrizione - Messina 1901:
Una bella e un po' sonnolenta cittadina nella quale Giovanni Pascoli docente di letteratura latina all'università, e l'inseparabile sorella Maria vivono a loro agio nonostante il loro carattere poco socievole e le loro abitudini così diverse da quelle locali. Ad un certo punto il timido professore romagnolo stringe un'amicizia tanto inaspettata quanto gratificante con una delle prime famiglie della città, quella dei principi di Monteferrante.
Timorosa, come sempre, che degli estranei possano anche involontariamente ferire il suo troppo sensibile fratello, Maria assiste in disparte, un po' corrucciata. Sembra avere ragione quando un terribile fatto di sangue getta nel lutto i Monferrante, turbando profondamente il suo Giovannino. Un mistero che il poeta e anche Maria, finalmente schierata al suo fianco, contribuiranno a risolvere e che potrà dirsi concluso solo in quel dicembre 1908, il dicembre del terremoto... Un romanzo ma con protagonisti reali: Giovanni Pascoli e sua sorella Mariù. 
Note biografiche: Maria Santini è nata a Torino ma vive a Roma da molti anni. Autore di numerose pubblicazioni a carattere storico e fantastico, si è occupata della narrativa per la scuola rivisitando, in uno stile avvincente quanto personalissimo, i luoghi della memoria. L'insaziabile curiosità intellettuale è un dato caratteristico della personalità di questa scrittrice.

Estratto:

Le prime 2 pagine:

- Prologo: Gli occhi neri scontrano gli azzurri [Canzone del Paradiso]
  1 Gennaio 1901

Quel tramonto aveva le calde tinte dell'estate. Nuvole color pesca, traversate da lunghe sfilacciature di un bruno dorato, riverberavano la loro luminosità sul mare trasparente: sembrava che avessero versato nell'acqua dei cesti di rose. Solo il venticello frizzante rivelava la verità: non era giugno, era gennaio. La notte precoce stava calando su Messina e presto avrebbe nascosto il monte Peloro con i suoi aranceti, la falce adunca del porto, taglio sottile tra le acque che scurivano in sfumature d onice, e l'Aspromonte, avvolto in brume amaranto al di là dello Stretto.
Era ora di tornare, rifletté Giovanni. Calato il buio, la temperatura si sarebbe fatta più rigida: sempre roba da ridere, però, per uno abituato agli inverni della Romagna e della Garfagnana.
Tirando delle pensose boccate di fumo, Giovanni volse le spalle allo Stretto. Al di là della strada la Palazzata era tutta rosata nell'ultima luce: l'arco aggraziato formato dai suoi edifici sembrava stendersi a perdita d occhio a destra e a sinistra, perché le due estremità già si confondevano con la notte. Il più bel porto del mondo, pensò Giovanni, settentrionale convertito dal fascino di quella città che aveva tutto per piacergli, quegli spettacoli naturali da togliere il respiro, il prestigio delle sue origini antichissime, la dignità altrettanto antica della gente, pur cordiale, quasi affettuosa. Chi glielo avrebbe detto, tre anni prima, quando lui e Maria avevano traversato lo Stretto la prima volta con tanti pregiudizi e tanta paura?
Si trovò a sorridere tra sé mentre aspirava le ultime boccate del sigaro ma di colpo sentì un disagio, come di un dovere trascurato e subito lo stimolo di una violenta angoscia:
- Gulì!
Immerso nelle sue fantasticherie, aveva perso di vista Gulì.
Lo diceva Maria che bisognava tenerlo sempre a guinzaglio...
Ancora pochi attimi prima il cagnolino andava e veniva con il suo solito stile: una corsetta avanti e poi un brusco arresto, il muso ansioso volto verso di lui perché pativa l'ansia dell'abbandono.
Lo avevano preso nel 94, quando era un cucciolo di cinque mesi e non l'avrebbero lasciato mai ma loro soltanto ne erano sicuri.
Lui no.
- Gulì!
Dov era?
Perduto, rubato, travolto da un carro...
Cosa avrebbe detto a Maria?
Già in preda al panico, si mosse per correre non sapeva dove, ma di colpo l'angoscia si sciolse in un sollievo indicibile.
Per forza non l'aveva visto subito: invece di precederlo Gulì si era fermato alle sue spalle.
E la causa eccola lì: altri due cani.
Tre musi accostati, tre code che si dimenavano freneticamente.
- Gulì! Vieni!
Niente.
Che fossero femmine?
Maria non voleva che il cagnolino accostasse le femmine: diceva che si sarebbe emozionato troppo.
Si diresse verso i tre animali.
Il lungo corpo grigio ferro di Gulì (l'incrocio di una levriera e di un bracco, secondo Maria) già si fondeva con l'ombra che calava mentre risaltavano ancora le quattro scarpette bianche.
Gli altri due cani erano splendidi esemplari da caccia, uno prevalentemente bianco e l'altro rosso come il tramonto.
Non si sentiva ringhiare: i tre animali facevano solo conoscenza.
Il modo che hanno i cani di fare conoscenza, tuttavia, è quello che tutti conoscono: quando vide che il reciproco annusarsi cominciava a coinvolgere quelle parti anatomiche che Maria avrebbe chiamato le vergogne, Giovanni, imbarazzato, si chinò e mise il guinzaglio al suo preteso levriere.
- Su vieni Gulì, poverino.
Mentre si rialzava vide arrivare, d'un passo tranquillo, quello che due guinzagli penzolanti da una mano indicavano per il padrone dei nuovi amici di Gulì:
- Buone Diana, Milady - disse il signore.
Perché un signore era elegantemente vestito di un ulster a quadri, indumento che, alto e slanciato com'era, portava benissimo.
Giovanni era sempre trasandato perché qualunque capo d'abbigliamento prendeva istantaneamente su di lui l'apparenza di un sacco informe e stropicciato: provò quindi una punta di feroce invidia. Oltretutto anche il volto del signore era all'altezza della figura: incorniciato da una corta barba castana molto curata, non era giovane, ma si poteva definir bello e pieno di distinzione.

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